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Gnafrù e l’ossidiana

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La via dell’ossidiana

di Ernesto Prudente

Nel marzo del 1900 J. Friedlaender, studioso di geologia, pubblica la notizia di un rinvenimento a Ponza di oggetti di ossidiana lavorati: “Alla Punta del Fieno ho trovato due coltellini lunghi circa tre cm e molti frammenti di ossidiana; nell’isola di Zannone, fra il convento e la cala del Varo, si trovano molti frammenti di ossidiana, probabilmente trasportata. In ambedue i siti si vedono frammenti di terraglia molto grossolana”.

Questo annuncio spinse diversi geologi a esplorare meglio le isole ponziane. Vennero avanzate una serie di ipotesi, anche valide, ma che non hanno contribuito alla creazione di un quadro preciso, nitido e omogeneo sull’insediamento umano dell’uomo preistorico sulle isole ponziane.

E ciò perché nessuno è riuscito, nessuno ha voluto addentrarsi, forse per difficoltà naturali, forse per poca volontà, in quella parte di Palmarola che è all’origine di questo avvenimento perché l’isola di Palmarola è la sede dell’ossidiana.

L’ossidiana è un vetro vulcanico purissimo che si forma per il raffreddamento immediato della pasta incandescente. Se il raffreddamento non è immediato viene fuori una ossidiana ricca di impurità  e priva di  quella lucentezza che è una delle sue principali caratteristiche; ne esce fuori una ossidiana che non è ossidiana.

Essa ha la particolarità che, percossa, si sfalda, si scheggia e non si frantuma e, una volta scheggiata, presenta bordi affilatissimi.

In Italia l’ossidiana è stata rintracciata a Pantelleria, Lipari, Palmarola e in qualche sito della costa occidentale della Sardegna.

Tutte isole!

Sarà stato, forse, il mare a determinare il raffreddamento repentino della lava, altrimenti non esistono spiegazioni sul perché sia stata trovata soltanto sulle isole e in alcuni punti di esse.

Le varie ossidiane, in ragione della loro provenienza, presentano tra loro delle diversità nel colore  tanto da poterne facilmente individuare il luogo di origine.

La pietra fu per l’uomo preistorico il materiale usato per fare armi, utensili,  strumenti e oggetti  vari, utili per le sue necessità e per i suoi bisogni.

Le fasi storiche di quest’uomo sono state classificate in Paleolitico (epoca della pietra antica) e Neolitico (tempo della pietra nuova).

La differenza tra questi periodi, distanti fra loro migliaia di anni, consiste nel passaggio dalla pietra scheggiata naturalmente a quello della pietra lavorata.

E se fosse stata proprio l’ossidiana a determinare questo passaggio?

Non è questo l’unico interrogativo che pone la scoperta e l’uso di questo minerale. Ce ne saranno ancora altri su cui studiosi validi dovranno fermare la loro attenzione.

Essendo l’ossidiana patrimonio solo e soltanto di alcune isole, il suo rinvenimento, il suo uso, il suo commercio pongono le basi del cammino della civiltà per l’uomo di quel periodo, che doveva essere marinaio e navigatore.

Non poteva, dall’oggi al domani, avventurarsi in navigazioni di diecine e diecine di miglia se non avesse avuto una discreta conoscenza dell’arte del navigare.

Ponza è di fronte al Circeo che, come è stato accertato, era abitato fin da tempi molto remoti.

Ed è stato proprio quest’uomo, l’abitante del Circeo, che all’incirca ottomila anni fa, mise piede sulle isole dell’arcipelago ponziano.

Il tempo, l’ignoranza, l’incuria, la necessità di un terreno produttivo non consentono più di stabilire con precisione i luoghi e l’estensione degli insediamenti. Soltanto a Palmarola esistono con certezza i segni e le tracce di un insediamento permanente.

I resti  di costruzioni, i residui  di ossidiana e selce lavorati, gli avanzi di ceramica grossolana, la risultanza di una particolare sistemazione del terreno per adibirlo alla agricoltura testimoniano la frequentazione e la permanenza sull’isola dell’uomo primitivo.

Una medesima affermazione si può fare anche per Zannone, per i reperti  risalenti a quel periodo ancora visibili nella zona tra il Varo e il Monastero.

Quella di Zannone è, però, una frequentazione diversa.

Il materiale,  grezzo o lavorato, rinvenuto a Ponza e a Zannone non lascia dubbi sulla sua provenienza. Esso proveniva da Palmarola. Come da Palmarola sono venute le ossidiane lavorate che sono state ritrovate in diverse zone dell’Italia centrale: entroterra del Circeo, Umbria, Sannio, Capri, Ventotene. Sono stati usati pietre e ciottoli fluitati e non pezzi staccati dalla roccia perché non esistono, almeno a Palmarola, “giacimenti” di ossidiana come vorrebbero far credere alcuni amanti della fantascienza senza tener conto della realtà locale.

A Palmarola non esiste una miniera di ossidiana!

Essa, l’ossidiana, veniva trovata in forma di pietra o di ciottolo.

Contrariamente a quanto si ritiene, l’ossidiana si trova, nella quasi totalità, nella parte centro – meridionale dell’isola più che in quella settentrionale.

L’esistenza in questa zona, parete nord che recinge la spiaggia, di un mammellone di roccia nera ha fatto cadere molti in errore. Quella roccia è ricoperta da un piccolo strato, da una pennellata  di ossidiana. E’ come uno strato di calce su una parete.

Nel tempo in cui l’uomo ha fatto uso della ossidiana di Palmarola l’isola non poteva essere disabitata e non lo era.

Troppe concomitanze di cose: il tempo impiegato per raggiungere l’isola; il tempo per la ricerca e per la raccolta; il tempo per il caricamento del minerale; il tempo per il ritorno e soprattutto le condizioni meteomarine, avrebbero reso impossibile, più che difficoltoso e difficile, il rientro al luogo di partenza nello stesso giorno. Per come sono situate le isole in relazione al Circeo è facile supporre  che l’uomo abbia usato la stessa tecnica che oggi si usa in montagna per la conquista di una vetta che presenta tante difficoltà: una serie di tappe, onde fissare i campi di trasferimento per sfruttare la conquista del terreno, per rendere più agevole e più facile il cammino del trasferimento per raggiungere il traguardo previsto e prefissato.

Fu la curiosità dell’ignoto a spingere l’uomo ad imbarcarsi su una piroga e a pagaiare verso le isole. Il primo sbarco avvenne a Zannone, la più vicina al continente.  Incalzato dalla stessa curiosità “fece vela” successivamente verso Ponza. Sicuramente passarono anni tra queste due leggendarie imprese.

La conquista del nuovo lo sottopose a superare, con grossi sacrifici, insoliti e imprevisti ostacoli. Sicuramente si diede da fare per aumentare  e migliorare “la flotta” anche con la creazione di natanti diversi dalle piroghe. Diede il battesimo del mare alla zattera che presentò subito grandi vantaggi: riusciva a contenere  più persone, aveva una maggiore stabilità, non imbarcava acqua e poteva sfruttare l’azione del vento per la navigazione. L’uso della vela nacque, forse, da un gioco che da bambini abbiamo fatto un po’ tutti, radunandoci  in quegli angoli di strada dove il vento si infila con il suo caratteristico sibilo e noi aprivamo il cappotto e tentavamo di camminare, si fa per dire, contro vento.

Due pali vennero sistemati, a perpendicolo, ai lati della zattera e collegati tra loro da una liana. A questa liana venivano legate le pelli di animali che riuscivano a contenere il vento  che spingeva la zattera in avanti.

Nacque la prima imbarcazione a vela. L’uomo cominciò a sfruttare l’azione del vento. Imparò che al mattino soffiava dalla costa continentale verso le isole e nel pomeriggio il suo corso era in senso contrario. E’ certo che tutto ciò non avvenne, né poteva avvenire, dall’oggi al domani. Nessuno saprà mai il tempo impiegato per avere la padronanza di questi attrezzi.

Attraversare venti miglia di mare con quelle attrezzature e con la paura dell’ignoto non era cosa semplice.

Paragono quel viaggio alla conquista della luna. E’ mancata solo la voce di Tito Stagno nel commentarlo.

Nessuno potrà mai dire con certezza il tempo impiegato per lo sfruttamento di Ponza, dove sicuramente si poteva vivere una vita più tranquilla e più serena perché lontano da attacchi e da scorribande improvvisi di altre tribù e lontano dagli incontri con animali feroci.

Nessuno potrà mai dire se questo gruppo desideroso di vivere sull’isola, numeroso o meno, nessuno lo sa, abbia avuto contrasti con coloro che invece non volevano allontanarsi dal continente.  Sicuramente vi fu una libera scelta.

Alcuni gruppi “familiari” decisero di trasferirsi sull’isola e fecero tutti i preparativi per il trasferimento. Radunarono le loro masserizie, che consistevano in qualche pelle di animale e qualche recipiente di ceramica  grossolana o di legno per contenere acqua e  semi.

Immaginiamo l’avvenimento:

Da tempo era passato il triste periodo ventoso e piovoso. Il sole cominciava a dare segno di tepore. I periodi di luce erano più lunghi di quelli dell’oscurità. Nei prati incominciavano a spuntare i primi fiori e gli alberi da frutta avevano le prime gemme e le prime foglioline.

Tutto era pronto per il grande balzo. Si aspettava la luna e quando essa apparve rotonda e lucente nel cielo era giunto il momento.

Tutti corsero alla spiaggia. Vennero messe in acqua le piroghe e le zattere  e tutti  quelli in partenza si imbarcarono. Ognuno prese il proprio posto perché sapeva, per aver provato e riprovato, quale era il suo posto.

Le mamme, al centro delle zattere, tenevano stretti tra le braccia i più piccini. Le lacrime solcavano il volto di tutti, anche di quelli che sarebbero rimasti. Il distacco è sempre triste e malinconico.

Ogni rematore impugnava il proprio legno.

Gnafrù, il capo spedizione, che già aveva fatto diverse escursioni sulle isole, dopo aver controllato ogni cosa, prese posto su una zattera che divenne la nave ammiraglia.

Le ultime raccomandazioni e i saluti vennero fatti da Geppetto, il patriarca di quella comunità, che con le lacrime agli occhi, perché una grossa fetta della sua famiglia si staccava da lui, ordinò la partenza. Il distacco fu straziante per ambedue i gruppi.

Il gruppo di “navi”, zattere e piroghe, navigavano a stretto contatto.

I rematori vogavano con energia, spinti anche dall’incitamento di Gnafrù, e ad ogni affondo di pagaia la barche sembravano scivolare su una superficie calma e piatta. E scivolarono ancora di più quando, allo spuntare del sole, incominciò a soffiare quel leggero venticello che gonfiava le pelli usate a mo’ di vele.

Trascorsero diverse ore, il sole era già alto nel cielo e iniziava quasi la sua fase calante, quando superarono Zannone. E qui Gnafrù lanciò il suo passaparola: remare con più vigore per arrivare a Ponza il più presto possibile, prima del tramonto del sole, prima del buio, per rendere meno duro alle donne e ai bambini il primo impatto con una nuova terra.

Approdarono nella zona occidentale e meridionale dell’isola da cui era più facile, oltre che più vicino, raggiungere la cima più alta, da dove si aveva la padronanza dell’isola e delle coste. Lì avevano notato, nei viaggi precedenti, diverse caverne piene di acqua piovana e altre spelonche da poter sfruttare come casa. Un sentiero tracciato nelle precedenti escursioni facilitò il compito.

Il tempo a seguire venne impiegato per il dominio del territorio. Attraverso la folta boscaglia vennero creati una serie di sentieri che permettevano di percorrere tutta l’isola così da potersi recare in ogni luogo per la ricerca di bacche e scoprire, nello stesso tempo,  il cammino degli animali che si trovavano sull’isola onde sistemare trappole per la loro cattura.

Crearono anche, dove era possibile e agevole, dei sentieri che portavano al mare.

Bisognava esplorare e conoscere la costa per esercitare la pesca che rappresentava una delle attività per procurarsi il cibo. L’altra era la caccia, oltre la misera agricoltura.

Bisognava preparare il terreno per far crescere le piante che davano quei particolari frutti che abbisognavano per la loro nutrizione e di cui avevano i semi.

Non era facile organizzare la vita in quei tempi e lo era ancora più difficile in questa nuova terra dove era nulla l’esperienza del passato.

Ne passò del tempo!

Quando tutto prese a scorrere secondo vecchie pratiche, incominciò anche  a balenare il pensiero di una escursione a Palmarola. Vennero portate due piroghe a Punta Fieno, un luogo facilmente accessibile e più vicino a Palmarola.

Il corto tratto di mare lo percorsero in un tempo relativamente breve. La circumnavigarono per ispezionarla e per trovare un punto di approdo da cui raggiungere la parte alta con una certa facilità.

Notarono che era grande più o meno come Zannone che molti di loro conoscevano bene.

Era molto più piccola di Ponza.

Vennero notati diversi animali e tanti, tanti uccelli. Anche quest’isola era coperta da vegetazione bassa. Solo in alcune zone vi erano alberi d’alto fusto. Non, però, nella stessa quantità di Zannone.

La cordata, capeggiata sempre da Gnafrù, si inoltrava verso l’alto, seguendo un sentiero tracciato dagli animali, quando venne bloccata dalle grida di Simba e Flesh, i due giovani presenti nella spedizione che, correndo loro incontro, mostravano qualcosa che avevano in mano.

Avevano trovato delle pietre di un colore nero,  risplendente al sole. Cosa mai vista. E di pietre se ne intendevano,  perché le usavano quotidianamente per armi e utensili vari. Ne avevano raccolte, rotte e lavorate tantissime.

Quella che aveva in mano Simba era la più grossa; aveva la dimensione di un pugno. Gnafrù la prese e la percosse con un’altra pietra. Avvenne il miracolo. La pietra non si sbriciolò ma si sfaldò a pezzi con i bordi così taglienti da procurare ferite a chi la toccasse senza precauzione e attenzione. I paragoni con il vecchio si sprecarono.

Avevano involontariamente trovato e scoperto qualcosa di molto interessante, qualcosa  di talmente avvincente e stimolante che, come vedremo, avrebbe cambiato il corso della storia dell’uomo; qualcosa che sarebbe stato loro di valido aiuto per millenni, consentendo di fare passi da gigante verso il traguardo della civiltà.

Pensarono subito al ritorno per mostrare agli altri la  scoperta di questa nuova pietra che nessuno conosceva, neanche quelli che abitavano la parte interna del continente.

I commenti durante la traversata furono tanti. Ognuno diceva la sua.

Si fermarono al Fieno dove tirarono in secco le barche per averle pronte per un prossimo viaggio che tutti volevano fare prestissimo.

Mostrare quella pietra significava destare grande meraviglia e, soprattutto, grande interesse. Meraviglia e gioia che furono  immense quando Febo, il più capace a lavorare la pietra, un Michelangelo di quei tempi,  fece partire dal suo arco una freccia, che aveva ricavato con pochi e ben assestati colpi, diretta a una capra che, legata, pascolava nella zona. La freccia si infilò profondamente nel costato provocandole una ferita tale che si accasciò. Cosa mai successa fino ad allora. Mamma mia! – cosa aveva nelle mani quell’uomo! Un’arma terribile capace di uccidere animale o persona anche a distanza.

Anche allora le guerre fra uomini erano frequenti. I motivi erano gli stessi di oggi: dominio e padronanza del territorio.

Dalla lavorazione ricavarono frecce, coltelli, punteruoli, raschiatoi e accette. Tutti utensili molto taglienti.

Si pensò subito di sfruttare queste pietre, come avvenne, per uno scambio di merci con gli abitanti della terraferma. Con questa pietra si potevano fare strumenti di difesa e di offesa mai conosciuti.

Pensarono subito di barattare la pietra con animali vivi da lasciare poi liberi sull’isola per i momenti di necessità.

Il problema adesso era quello di raccogliere queste pietre in maggiore quantità.

All’alba, quando la giornata si presentava bella, si era già in navigazione per Palmarola. Si girava fino a tardi per la raccolta. Le pietre, grandi o piccole, erano disseminate nel terreno per cui venivano raccolte una alla volta e non sempre nella stessa zona. Si imparò, poi, a cercare lungo gli arenili. In quelle zone le pietre erano più abbondanti ed anche più grosse.

Passò del tempo, tanto tempo, prima che potessero portare questi nuovi strumenti in continente.

Con l’ossidiana continuarono a lavorare la selce, che a Palmarola era facile rinvenire, in lamine; più facile della ossidiana. Era un materiale più abbondante.

Questo andare e venire continuamente comportava duri sacrifici e qualche volta ci scappava anche il morto.

Si pensò allora di creare su quell’isolotto un luogo abitativo. Venne scelta, sempre per il controllo delle coste, la parte alta dove, però, non esistevano antri o spelonche o altri ripari naturali  per un rifugio sicuro alle intemperie.

Nacque la necessità della costruzione di una casa, sì, una casa come quelle attuali anche se diversa nella costruzione.

Il terreno scelto venne murato tutt’intorno con parracine (muri a secco) per evitare che agenti atmosferici ne causassero lo smottamento.

Vennero cercate e portate pietre di una certa forma da poter essere poste una sull’altra senza subire  barcollamenti, ignorando di quei tempi l’uso di un qualsiasi tipo di magma o legante.

La costruzione a forma di tronco conico consentì facilmente la copertura con foglie e frascame.

In due zone dell’isola, ancora oggi, sono abbondanti e di facile consultazione i reperti di quel periodo

In una, sulla sommità di Monte Guarnieri, che i vecchi palmarolesi chiamavano “ncòppe i’ case vècchie”, esiste ancora una parte della base della casa costruita dall’uomo primitivo consistente in un muro, “parracine”, di forma circolare e alto da terra oltre mezzo metro.  La certezza che vi fosse una “casa” è confermata dalla presenza, tutt’intorno, di pietre particolari, tutte a forma di parallelepipedo perché garantivano migliore e maggiore stabilità alla costruzione.

Un maggiore conforto lo si ricava anche dalla preparazione del sito su cui poggiava la costruzione. Il piccolo pianoro era tenuto compatto da un consistente muro di recinzione per evitare lo smottamento del terreno. Certamente nei secoli scorsi, fine del 700, all’epoca dei ultimi colonizzatori,  esistevano tracce ben più consistenti e visibili di antiche case da cui nacque la denominazione di “case vecchie” della zona. L’incuria e l’ ignoranza di questa gente, i nostri nonni, ha avallato l’opera demolitrice degli agenti atmosferici protrattasi nei millenni.

E noi li seguiamo sullo stesso terreno.

La stessa cosa è da dirsi per quello che esiste sulla “sella” o “cannone”. Il terreno del pianoro, per evitare anche qui smottamenti, è tenuto compattato da una “parracina” perimetrale, ancora ben visibile. Anche qui, su questo terreno e nei dintorni sono disseminate una quantità enorme di pietre identiche a quelle visibili su Monte Guarnieri. Un esame attento e oculato della zona porta, inevitabilmente, alla conclusione che quelle pietre di forma uguale non si trovano lì per caso, che non sono frutto dell’eruzione ma che sono pietre scelte per uno scopo ben preciso. La loro fattezza fa pensare finanche che esse siano state lavorate.

Da queste constatazioni si può benissimo dedurre, senza ombra di dubbio, che almeno in questi due luoghi gli uomini primitivi si costruirono una “copertura”.

Altra conferma di un insediamento preistorico stabile si ha dalla presenza di una vasta zona di terreno “parracinato” per consentirne la coltivazione.

Quasi tutta la zona di ‘Vardella’, a cavallo del sentiero che si percorre salendo dal mare, dopo la parte in aspra salita, risulta terrazzata per consentirne la coltivazione.

Il pendio della collina, partendo dal basso verso l’alto, è stato gradinato e con il terreno contenuto da un muro a secco, si sono ricavati dei piani orizzontali, dove praticare la agricoltura.

Questi gradoni, le nostre cosiddette “caténe”, stanno lì e si offrono allo sguardo e al  cervello per le nostre considerazioni.

La dissomiglianza nella preparazione del terreno alla coltura tra questo e quello approntato da generazioni più recenti è evidentissima. Le “caténe” dei preistorici sono molto larghe, quelle moderne sono strette per riparare le coltivazioni dal vento. Nelle “caténe” antiche ci sono macigni che era impossibile rompere o rimuovere per mancanza di attrezzi idonei, il che non si nota nei terreni resi coltivabili dalle popolazioni posteriori.

A quel periodo risale lo sbancamento, in un terreno friabile, di una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, la famosa “Grotta dell’acqua”, che dà il nome alla zona. Tutte queste opere a cui è da aggiungersi la costruzione di sentieri per il mare e per le altre zone dell’isola fanno capire che l’uomo non poteva agire da solo o in compagnia di qualche altro. Era certamente aggregato in un gruppo di più individui e di più gruppi familiari. Dovevano condurre, sia pure a livelli molto elementari, una vita socialmente organizzata forse anche con distribuzioni di ruolo e di lavoro.

L’abitante preistorico di Palmarola non poteva basare la propria sopravvivenza sull’isola su quanto già pronto in natura. C’era poco da trovare  e raccogliere, come era abituato e faceva sul continente dove poteva spostarsi continuamente e rapidamente  da un luogo all’altro.

L’isola, per estensione e conformazione, offriva poco che subito si tramutava in un niente per cui egli fu costretto a cimentarsi nel far crescere i vegetali che costituivano la base della sua alimentazione e che servivano a completare quello che importava con il baratto dell’ossidiana.

La vita sull’isola lo costrinse a modificare le sue abitudini, le sue consuetudini, le sue tradizioni. Da nomade, di terra in terra, in cerca di cibi, fu costretto a diventare sedentario. Fu obbligato, dall’isola e dall’isolamento, a diventare un essere stanziale e a crearsi le prime strutture abitative stabili.

Tutto questo ci dà la spiegazione del valore e dell’importanza  dell’ossidiana in quel periodo della vita dell’uomo preistorico.

L’ossidiana, sia allo stato grezzo che lavorata, doveva essere trasportata in continente per l’uso di quelle genti la cui richiesta era sempre alta, per il continuo avvicendarsi di altre popolazioni.

Tutto questo implicava il già difficile problema della navigazione. Si dovevano attraversare diecine di miglia di mare con carico pesante. Sicuramente le zattere presero il posto delle piroghe. Sarebbe bastata una leggera brezza, che non manca mai specialmente nel tratto Ponza – Zannone, per fare imbarcare spruzzi d’acqua che avrebbero appesantito l’imbarcazione provocandone l’affondamento. La zattera offriva maggiori garanzie di stabilità e di sicurezza consentendo, nello stesso tempo, il trasporto di un maggiore quantitativo di materiale.

La via che l’uomo primitivo seguiva per raggiungere la terraferma, anche se ben visibile da Palmarola, era: Palmarola – Ponza – Costa di ponente – Zannone – Continente.  Seguendo questo itinerario si allungava il cammino ma si accorciava il tratto di mare da percorrere lontano dalla costa.

La navigazione costiera permetteva, in caso di necessità, di rifugiarsi nelle varie insenature di Ponza o di Zannone dove, oltre a porre al riparo i natanti tirandoli in secco, impiegavano il tempo a lavorare l’ossidiana grezza che trasportavano.

Ecco il motivo per cui il Friedlaender ha trovato oggetti e scarti di ossidiana a Punta Fieno.

Ecco il motivo per cui sono stati rinvenuti e si rinvengono ancora oggetti e scarti di ossidiana a Zannone.

La sosta a Zannone era più frequente e certamente più lunga per motivi naturali e per questo l’uomo primitivo ha scavato un fosso, in una “catena” appositamente preparata,  per la raccolta della acqua piovana indispensabile per le sue necessità.

Nei dintorni di questa buca si notano gli scarti della lavorazione dell’ ossidiana. La zona interessata è a sinistra della strada che dal Varo porta al Monastero.

Una volta raggiunto il Circeo, il minerale grezzo e gli utensili già pronti venivano barattati con le popolazioni interne. Forse è da addebitarsi a questo periodo la nascita dell’asta, la vendita pubblica al migliore offerente.

Ernesto Prudente