Cucina

L’alimentazione dei ponzesi ai primi del secolo passato

di Sandro Vitiello

 

Ciao Mario, ciao Sandro
ci tenevo tanto ad essere con voi sabato ma non ci riesco proprio.
Non volevo farvi mancare un mio contributo messo insieme nelle sere ponzesi di questo inizio anno.
E’ un lavoro ‘a più mani’ visto che ho coinvolto i miei fratelli e soprattutto mio padre.
Manca tutta una parte riservata alla viticoltura dell’isola e alla lavorazione dell’uva ma rischiavo di scrivere due cose generiche. Questa  estate approfondiremo.
Volevo anche dirvi che quanto scritto ovviamente si riferisce al vivere di quelli che una volta si sarebbero chiamati proletari: erano comunque la stragrande maggioranza degli abitanti di Ponza.
Sarebbe interessante integrare queste testimonianze con altre di gente che, ad esempio, vivendo nella zona del porto, aveva minori legami con la coltivazione della terra.
Vi mando un saluto e buon lavoro,

 

[Comunicazione inviata da Sandro Vitiello in occasione dell’incontro “Ponza-a-Lanuvio Day” del 23 Ottobre 2010]

 

L’alimentazione dei ponzesi ai primi del secolo passato

di Sandro Vitiello

Parlare dell’alimentazione degli abitanti della nostra isola significa anche raccontare l’economia di una parte importante dell’isola.

Sicuramente la maggior parte di chi ha abitato Ponza viveva facendo contemporaneamente tanti mestieri. Il dato comune  era l’isolamento dal mondo esterno e quindi c’era una limitata capacità di fare commercio e vendere al meglio i prodotti del proprio lavoro.

Il mestiere del pescatore, maggiormente diffuso, veniva integrato con la coltivazione dei pochi terreni a disposizione.

L’eccessiva frammentazione delle proprietà non permetteva neanche un uso commerciale di quanto veniva prodotto; quasi tutto il raccolto veniva consumato in casa.

Solo un po’ di vino veniva venduto a qualche notabile della zona del porto.

Anzi, spesso si andava  a giornata a lavorare nelle “catene” di questi signorotti, che avevano terreni lungo i fianchi del monte Guardia.

Il mio bisnonno Sangiro era uno di questi: verso la fine dell’800 partiva il lunedì mattina da Le Forna per andare a lavorare i terreni nella zona del Fieno.

Lavorava per tutte le ore di luce del giorno e dormiva in alcune grotte della zona.

Il sabato sera tornava  a casa.

Raccontava sempre che mentre tornava a casa esausto insieme ai suoi compagni di ventura, si divertivano a contare il numero di dimore che c’erano nella parte nord dell’isola.

Lasciati alle spalle i Conti arrivavano a contare 16/17 dimore abitate comprese un paio nella vallata  a nord di monte Magliaro.

Il piatto più comune nelle famiglie più umili dell’isola di Ponza era costituito dai legumi; fave  essenzialmente. Queste venivano prodotte, insieme ai piselli, lenticchie, ceci, cicerchie, “ culetuòt’n’(vicia sativa var. ‘macrocarpa’- N.d R.; una sorta di piselli neri e duri, passati agli animali appena è arrivato un po’ di benessere), sulle terrazze che coprivano le colline di Ponza, ma venivano anche abbondantemente acquistati sulla costa.

In quasi tutte la famiglie c’era un sacco di 40/50 chili di fave come scorta.

Le fave venivano cucinate quasi sempre con le rape o le cipolle, a volte con le patate bollite, tre o quattro volte la settimana.

Il pesce pescato a Ponza raramente veniva portato sulla costa, per essere venduto, da qualche commerciante dell’isola.

La forma di guadagno più consistente dei pescatori ponzesi era quella di seguire i velieri-vivai che raccoglievano le aragoste pescate sulle coste a nord della Sardegna e le  andavano a rivendere a Marsiglia o Barcellona.

Il pesce  fresco ovviamente abbondava in tante famiglie ed  era parte del pranzo o della cena altrimenti se ne faceva uso anche conservato: salato (rotunni, merluzzo, razze, colli di aragoste, tutte le varietà di squali commestibili ecc), secco (essenzialmente mosdelle, scorfani, perchie di grosso taglio) e anche a scapece (sotto aceto) come rotunni e murena. Inoltre i rotunni venivano anche conservati secchi ma passati prima in una mistura di peperoni piccanti disidratati in forno, origano e poco sale. Sempre i rotunni, pescati spesso con le bombe, venivano usati come esca dei palamiti. “Le morze” se non venivano mangiate dai pesci e se ritornavano in superficie in buono stato, venivano consumate  a casa, bollite, fritte o in zuppa.

La verdura  era presente secondo i ritmi delle stagioni.

Scarola, “foglia”, melanzane, peperoni, lattuga, cavolfiori, cavolo cappuccia, finocchi, carciofi,  ecc.

Il pomodoro era  ovviamente parte fondamentale nella preparazione dei piatti e veniva anche abbondantemente conservato in vario modo.

Due su tutti: freschi “a piennulo” in un angolo riparato della casa e il succo, essiccato e concentrato al sole. Una volta secco veniva raccolto e conservato in vasi di coccio con un po’ di olio sopra.

Successivamente con l’uso di tappi di sughero e di una tappatrice in legno molto approssimativa si incominciò a conservare anche la classica conserva.

La carne era un’eccezione nell’alimentazione. Animali da cortile come galline e conigli li si trovava in tavola a volte la domenica.

Capre e pecore allevate soprattutto per il latte ai bambini.

Dal latte di questi animali si ricavava anche una ricotta ed un formaggio più o meno salato da mangiare così com’era o da grattare sulla pasta.

Il grosso del formaggio consumato a Ponza comunque  arrivava dalla Sardegna. I pescatori di Ponza e i pastori della Gallura avevano costruito negli anni un rapporto di grande solidarietà che portava i primi a regalare il pesce ai sardi e ne ricevevano in regalo frutta verdura e formaggio.

Il formaggio veniva anche abbondantemente acquistato e portato a Ponza per il consumo familiare ed in parte anche rivenduto.

Il primo sequestro di persona in Sardegna lo ha subito un importante commerciante di formaggi di origine ponzese.

L’animale per eccellenza presente nelle case ponzesi era comunque il maiale.

Questo era il principale fornitore di condimenti alle cucine della nostra isola.

L’olio era poco presente e usato essenzialmente a freddo o per qualche frittura, il burro inesistente e quindi il cibo delle tavole ponzesi prendeva sapore soprattutto grazie al grasso del porco (la sugna).

Il maiale veniva quasi sempre ammazzato in inverno quando arrivava a pesare almeno due quintali, quando cioè non era più in grado di sostenersi sulle zampe. Le parti di grasso della schiena e delle spalle dell’animale venivano salate e conservate come lardo. Il grasso delle parti interne del maiale veniva sciolto e diventava sugna. Veniva poi conservato dentro vasi di coccio e utilizzato come condimento.

Un residuo della lavorazione della sugna erano i ciccioli del maiale (i’ccìcul’), mangiati così per sfizio o usati per preparare una pizza fritta fatta con farina di granturco, uva passa e pinoli. Gli scagliuozzi (i’ scagliuòzz’) erano fatti con lo stesso impasto ma cotti al forno come pagnotte.

La carne del maiale veniva poi usata per preparare salami, salsiccie, capocolli e per il resto veniva salata e conservata. Questa carne diventava parte di piatti del giorno di festa come sugo di pasta o con verdure e/o legumi.

Conviene ricordare che la macellazione del maiale era  anche occasione per la preparazione di un dolce molto apprezzato: il sanguinaccio.

Si otteneva mischiando e cuocendo sangue di maiale con vino cotto, spezie, uva passa e pinoli. Si conservava per un discreto periodo.

L’apporto proteico delle carni veniva garantito anche dagli uccelli migratori che venivano catturati a migliaia, spiumati, sventrati e conservati sotto sale oppure sbollentati in acqua e aceto e poi messi in barattoli sott’olio.

La frutta era ovviamente solo quella prodotta nei propri orti: un po’ di uva, soprattutto per fare vino, fichi, fichi d’India, pere, gelsi, albicocche, prugne, sorbe, mele cotogne, giuggiole e anche bacche selvatiche come more, corbezzolo, mirtilli.

Molte varietà ma poca produzione.

I fichi venivano consumati sicuramente freschi ma venivano abbondantemente essiccati sopra dei lunghi tavolacci.

Venivano essiccati anche i fichi d’India molto maturi.

Sbucciati venivano infilzati con un giunco e poi lasciati al sole.

I fichi d’India erano anche la materia per la preparazione di un cibo ad altissimo indice di calorie, “le mostarde” (i’mmustard’).

Venivano prodotti con la melassa ottenuta dalla cottura dei fichi d’India molto maturi sbucciati solo a velo di cipolla. Si eliminavano al setaccio i semi, e si aggiungeva semola di grano duro.

La polenta ottenuta veniva distribuita nei piatti e dopo che si era indurita, veniva tagliata a quadrotti e lasciata essiccare al sole.

Poteva durare diversi mesi ma in genere prima di Natale le scorte si esaurivano, soprattutto nelle famiglie con tanti bambini.

Una bella tradizione portata avanti dalla mia nonna Apollonia era quella di conservare in una cassapanca di legno i fichi secchi, i fichi d’India e i le mostarde essiccate.

Questa cassapanca veniva aperta la notte dei morti.

Il dolcetto-scherzetto di Halloween ha per caso avuto origine alla Montagnella?

In gran parte delle case c’era la mola per macinare i cereali e il forno per la preparazione del pane. Era un pane con una crosta spessa che si conservava morbido per diversi giorni.

Una parte del pane appena sfornato veniva però tagliato subito a fette e rimesso nel forno ancora caldo; diventava freselle da mangiare dopo che il pane fresco era finito oppure per preparare piatti che ne prevedevano l’uso come il “cazzanniat”. Pane secco o freselle lasciate a bagno nell’acqua di cottura dei fagioli e condite con aglio, olio, sale  ecc.

C’erano però comunque dei forni in giro per l’isola che producevano regolarmente pane.

Un problema serio nella storia alimentare dell’isola era comunque rappresentato dal combustibile da usare per la cottura del cibo.

L’isola non era in grado di garantire una produzione sufficiente di legna da usare sotto le pentole  o nei forni. C’era il bosco di Zannone ma vi si poteva accedere solo in un periodo limitato dell’anno dopo aver avuto un permesso dal comune.

Comunque solo nella parte di ponente che scende dal convento verso l’approdo del Varo.

Il resto dei boschi di Zannone, quelli dove ancora oggi ci sono gli alberi da alto fusto, veniva utilizzato per il carbone. Operai specializzati che arrivavano dal continente passavano diversi mesi sull’isola a tagliare alberi, costruire focolai per la combustione senza fiamma  della legna e poi a trasportare via il carbone.

Era un’attività fatta per gran parte per conto del comune di Ponza che ne ricavava un guadagno.

C’era comunque un commercio di legna da  ardere che arrivava dal continente.

Una pratica molto diffusa comunque era quella di andare a “rubare” di notte la legna sopra Zannone, anche nelle zone proibite o sulla costa di san Felice di Circeo.

Un aneddoto di quell’epoca: metà anni trenta in zona Cala Fonte.

Arrivano dalla terraferma alcune barche cariche di legna che vista l’ora tarda decidono di lasciare il tutto  ed andarsene a casa a dormire; l’indomani avrebbero provveduto a portare a  casa la legna. Mio zio Girolamo sta tornando a casa dopo aver passato qualche ora dalla fidanzata. Sulla via del ritorno vede un’ombra saltare davanti a lui e nascondersi dietro ad un cespuglio.

In quel tempo i munacielli erano una presenza costante nelle notti ponzesi.

Lui incomincia a credere di aver avuto finalmente un incontro ravvicinato con questa strana creatura ma, forte e coraggioso com’era, decide di vedere più da vicino il suo munaciello.

Incomincia a cercarlo e, una volta trovato, gli si avvicina. Questo, scoperto, incomincia  a scappare, rincorso da zio Girolamo, sempre più motivato.

Finalmente viene raggiunto e, giusto per stabilire le regole, si piglia un paio di cazzottoni in testa. Malgrado le botte il malcapitato resiste. Dopo un’altra raffica di cazzotti sbatte con la faccia sul muro di una parracina e si fa male seriamente.

Incomincia  a piagnucolare e racconta il suo bizzarro comportamento.

E’ Aniello “di Ventura”, un tipo un po’ sciroccato di Cala Caparra, mandato da suo fratello Tommaso a rubare un po’ di legna lasciata incustodita  a Cala Fonte.

I dolci delle feste.

I dolci ponzesi che sono rimasti nella memoria di tanti sono essenzialmente quelli legati alle due principali festività religiose: il Natale e la Pasqua.

A Natale più che un dolce si produceva in grande quantità un valido sostituto del pane; le zeppole.

Prodotte con un impasto simile  a quello del pane, venivano cotte fritte e portate in tavola al naturale o spolverate con zucchero. Quando poi diventavano dure  e immangiabili venivano ammollate nel vino cotto.

A Pasqua il dolce della festa era il Casatiello. Panettone semplice senza particolari ingredienti se non sugna, farina, uova, zucchero e lievito, aromatizzato con scorza di limone o con un bicchiere di anice.

L’anice, tra l’altro, è uno dei pochi liquori, forse l’unico, presente nelle case dei ponzesi. Altro dolce tipico ponzese sono i tortanelli (i’ turtaniell’): ciambelle di farina impastata con il mosto e lasciati cuocere nel mosto d’uva. Tipico dolce legato alla vendemmia.

Da ricordare anche le nocchette; impasto tipo casatiello, sfoglia stesa e fritta in olio bollente.

Servite anche calde spolverate di zucchero.

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